lunedì 25 ottobre 2010

Il vinaio di Kabul

Per anni è stato “il vinaio italiano di Kabul”, lo storico fondatore della distilleria afgana che riempì di speranze le microeconomie della valle del Paghman e del Turan, dove le dolci uve bianche e scure non avevano avuto, fino a quel momento, sorte migliore della vendita al dettaglio nei bazar.

Fu in quel Paese, diversissimo dall’attuale dilaniato dai conflitti, che arrivò casualmente Antonio De Feo, allora giovane studente di economia innamorato dell’Oriente. Nato ad Orta Nova, frequenta il Giannone di Foggia, prima di trasferirsi definitivamente, nel 1965, a Torino. L’otium studiorum lo induce, solitario, a montare su una vecchia Buick per intraprendere un viaggio di puro piacere alla volta del Pakistan.
“In Piemonte avevo già la mia piccola attività di lavorazione dell’acciaio – ricorda al telefono De Feo -, ma decisi di visitare i posti che mi hanno sempre affascinato e quando arrivai in Afghanistan dal Pakistan, via Karachi e Peshawar, me ne innamorai immediatamente”. La pesante automobile americana arranca tra le gole profonde segnate dalla nevrotica serpentina stradale del passo del Khyber, la storica frontiera che unisce i due Paesi musulmani.

Kabul si schiude agli occhi del foggiano tra gli alti e severi monti, conosciuti fin nei meandri più impervi dai mullah locali. “Appena arrivai, ebbi la fortuna di conoscere padre Angelo Panigati – ricorda De Feo – che si sforzò immediatamente di addentrarmi nella società. Ma allora, per trovare un italiano, bisognava cercare piuttosto all’Ambasciata”.
Il padre barnabita originario di Locate Triulzi, nel Milanese, era appena arrivato, nel 1965, a bordo di un maggiolone Volkswagen, per restare 26 anni in quello che definì un “paradiso rovinato dai russi”. “Mi invitò a casa sua, a cena,  già la prima sera – continua il pioniere del vino in Afghanistan -, e lì conobbi tutti i membri dell’Ambasciata italiana. Tra questi, c’era il console che mi sfidò a ping pong e perse sonoramente. Fu lui a farmi conoscere il funzionario dell’Onu che allora si occupava di convogliare gli investimenti stranieri in Afghanistan”. Seguirono una serie di incontri con il ministro del commercio, al quale venne immediatamente proposta l’idea dello sfruttamento delle uve locali. Decide in quel momento di tornare in Italia, persuaso dalla bontà dell’operazione imprenditoriale che gli avrebbe svoltato la vita, nonostante in quel momento fosse completamente a digiuno di enologia. Lascia l’università e studia con costanza e passione la trasformazione dei grappoli in vino da un esperto docente di Alba, nel Cuneese, la patria del barolo. Impiega due anni per diventare esperto del settore, acquista le macchine che avrebbe dovuto trasportare lungo il confine sovietico, e si trasferisce con la famiglia – questa volta per restarci – a Kabul. Il progetto per al creazione di una nuova zona industriale messo a punto qualche tempo prima dall’Onu, è solo il pretesto per partire con il sogno della vita, lo stesso che gli permise entrare nei cuori della gente del posto grazie all’impiego della manodopera interamente afgana. “Fui il primo investitore in assoluto di quel progetto – afferma ancora De Feo -, ma al zona industriale non era ancora pronta, per questo acquistai un appezzamento di terreno a circa 12 chilometri dalla capitale”. Un migliaio di operai iniziarono la costruzione della distilleria che faceva storcere il naso ai conservatori, ma ben presto anche loro furono persuasi dalla bontà dell’iniziativa, visto che la stessa zona industriale venne spostata per volontà del pioniere del vino afgano.
“Ci fu qualche difficoltà nei lavori – ci dice De Feo – ma l’impiccio maggiore fu l’utilizzo dei macchinari che erano tarati per lavorare con le temperature italiane: le alture dell’Afghanistan non creavano certamente il miglior ambiente possibile per quel tipo di attività. Per di più, il treno sovietico che li trasportava dall’Italia venne fermato alla dogana”. E continua: “Il primo vino lo facemmo a cielo aperto, visto che lo stabilimento non era ancora ultimato. La temperatura si spingeva fin oltre i trenta gradi e le macchine non erano predisposte per alture superiori ai 2mila metri, visto che a quell’altezza si riduce la pressione e quindi eccita la fermentazione. Fummo costretti a rivolgerci alla fabbrica del ghiaccio per acquistarne una quantità rilevante e scaricammo tutti i blocchi direttamente nelle vasche”. Gli strumenti prima svalvolano e poi si spaccano: non tengono a quelle condizioni. Le bottiglie, ordinate dal Pakistan, non arrivano mai. La questione si risolve nei bazar, e il primo vino, novello, viene etichettato con la scritta “Castellino”, che presto darà il soprannome al pioniere ortese. Il prodotto, come da accordo con le autorità locali, può esser venduto solo all’estero. Non bastano le condizioni occupazionali e la mensa offerta a 150 operai per convincerli che quella distilleria può essere una grande occasione per l’economia locale. I primi anni sono di sacrificio assoluto, con il tetto che ancora manca sulle teste dei lavoratori.

Ci vuole poco per assistere a scene che riportano la mente al proibizionismo americano: le bottiglie vengono regolarmente inviate in Pakistan, ma i contrabbandieri si preoccupano di portarlo sulle bancarelle locali per via della richiesta crescente. Dopo un po’, alle etichette ci pensa addirittura la tipografia del quotidiano Kabul Times. A questo punto, i tempi sono maturi per i distillati: nasce il cognac “Nerone”. “Il legno afgano non era il massimo per le botti, allora decidemmo di mettere dei pezzi di rovere direttamente nelle grandi damigiane prodotte in Russia”.
In questa fase, la distilleria tocca il livello produttivo più alto: 2 milioni di bottiglie. Si pensa addirittura di allargare la gamma ai liquori. Ma gli anni Settanta sono segnati dall’instabilità politica. Il 1973 è l’anno della svolta: un golpe spazza via la monarchia per far posto alla repubblica. È l’inizio dell’escalation di violenze. L’ex contabile di De Feo, Amir, diventa ministro e lo avvisa dell’ingresso dello Stato nella proprietà al 49 per cento. “Poi la distilleria venne completamente nazionalizzata e tutt’ora esiste”, afferma ancora De Feo. Adesso si occupa di altro, è entrato nel settore dei supermercati. Ma continua a tenere un legame forte con quella cultura grazie allo show room di tappeti che gestisce. “Non dimenticherò mai quel popolo – conclude –, tanto disponibile quanto severo. Nessuno riuscirà mai a conquistarli con la forza”. Lui lo ha fatto, ma solo perché ha saputo conquistare i cuori di un popolo che ha visto profondamente mutato il proprio “paradiso”, rimasto tale solo fino agli anni Sessanta.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

bella storia, bel racconto.
che tempi!

Anonimo ha detto...

Una storia grandiosa !!!

Anonimo ha detto...

Una storia travolgente e appassionante, ho letto anche il libro e faccio i miei complimenti all'autore e protagonista..... Bellissimo romanzo !!

Anonimo ha detto...

Cosa si puo' dire di personaggi del genere ? Sig. De Feo, sono le persone come lei che in quegli anni hanno reso grande l'Italia nel mondo, grande volonta' e voglia di arrivare...... Ho letto il suo libro con una voracita' incredibile, una storia incredibile che dovrebbe essere d'esempio per i giovani di oggi.... Complimenti !!
M.F.

Anonimo ha detto...

Ho avuto il piacere di leggere questo romanzo su consiglio di un amico.

Una storia davvero incredibile, a tratti commovente e a tratti esaltante...
Difficile pensare oggi ad un avventura del genere.....

Ho divorato questo scritto senza pause in due giorni, sono un accanito lettore, ma pochi libri mi hanno coinvolto in questo modo.

Quando ho scoperto che il Sig. Antonio De Feo, ora vive e gestisce un'azienda in provincia di Novara, non distante da casa mia, ho voluto assolutamente conoscerlo di persona.

Una persona squisita, sicuramente un uomo d'altri tempi.
Anche se gli anni sono passati, parlando con lui si percepisce ancora oggi quella grinta e quella determinazione che emerge dal romanzo.

Sig. Antonio, e' stato un piacere e un vero onore conoscerla di persona, la ringrazio per il tempo che ha speso gentilmente a chiacchierare con me.

Federico M.